Mortalità per diabete di tipo 1: due passi avanti, uno indietro

Prima della scoperta dell’insulina la sopravvivenza dopo la diagnosi di diabete di tipo 1 era estremamente breve: il 50% dei pazienti moriva entro i primi 20 mesi dalla diagnosi e meno del 10 % sopravviveva a 5 anni. L’introduzione della terapia insulinica nel 1922 ha notevolmente migliorato la sopravvivenza e la mortalità da chetoacidosi diabetica è diminuita sostanzialmente, tanto che a metà dello scorso secolo, seppur l’attesa di vita per le persone con diabete di tipo 1 fosse ridotta di 20 anni, il 50% dei soggetti raggiungeva l’età di 55 anni. Oggi, mezzo secolo più tardi, la terapia insulinica intensiva è diventata lo standard di cura e i progressi nelle modalità di somministrazione, nelle tipologie d’insulina e nel monitoraggio glicemico hanno notevolmente migliorato la gestione della malattia. Per cui la domanda che ci si pone è se l’aspettativa di vita del paziente con diabete di tipo 1 è uguale a quella delle persone senza diabete e quali sono gli eventuali fattori di rischio coinvolti nel condizionare l’attesa di vita.

Su queste domande sono stati pubblicati alcuni studi molto importanti nelle ultime settimane che meritano di essere riportati nei loro messaggi sostanziali.

1)      Si ha minor mortalità se si tratta il diabete di tipo 1 intensivamente da subito ( Association between 7 years of intensive treatment of type 1 diabetes and long-term mortality). È stato possibile dimostrare questo valutando la coorte di pazienti studiata nel Diabetes Control and Complications Trial (DCCT) dopo un lungo periodo di follow-up.
I partecipanti al DCCT erano 1.441 volontari sani con diabete mellito di tipo 1 che, al basale, avevano 13-39 anni di età con 1-15 anni di durata di malattia. Durante la sperimentazione clinica del DCCT, i partecipanti erano stati assegnati in modo randomizzato a ricevere terapia intensiva (n = 711), volta a ottenere una glicemia il più vicino a possibile ai limiti non diabetici e nel modo più sicuro, o terapia convenzionale (n = 730) con l’obiettivo di evitare ipoglicemie sintomatiche e iperglicemia.
La pubblicazione originale del DCCT è la base dell’attuale raccomandazione alla terapia insulinica intensiva multiniettiva avendo dimostrato allora che determinava una riduzione del 50-70% delle complicanze microvascolari. Dopo la conclusione dello studio DCCT (1983-1993), i partecipanti sono stati seguiti con uno studio osservazionale multicentrico (27 centri degli Stati Uniti e Canada) chiamato Epidemiology of Diabetes Control and Complications [EDIC] fino al 31 dicembre 2012. È stato quindi possibile valutare il rischio di mortalità dopo una media di 27 anni. Il rischio di mortalità generale nel gruppo intensivo è risultato inferiore a quella nel gruppo convenzionale, anche se la riduzione del rischio assoluto era minima (di circa 1/1000 pazienti-anno). Questi risultati forniscono rassicurazione che la terapia insulinica intensiva attuata nei primi 1-15 anni d’insorgenza della malattia è associata a una riduzione della mortalità, confermando nel diabete mellito di tipo 1 quanto osservato nel diabete di tipo 2 sull’opportunità di terapia intensiva precoce.

2)      Si ha minor mortalità se si riduce l’emoglobina glicosilata (Glycemic control and excess mortality in type 1 diabetes). Questo studio osservazionale è stato effettuato in una popolazione con diabete di tipo 1, seguìta attraverso il registro nazionale in Svezia. Sono stati inclusi in questo studio tutti i pazienti registrati dal 1° gennaio 1998 in avanti e l’osservazione è continuata fino al 31 dicembre 2011 (33.915 pazienti). La mortalità dei soggetti con diabete di tipo 1 è, nella media, risultata doppia rispetto alla popolazione non-diabetica, e le cause cardiovascolari di morte sono risultate all’incirca triplicate rispetto ai controlli. Questo rischio è risultato però direttamente proporzionale al controllo metabolico misurato come livelli di emoglobina glicosilata

 

Livello HbA1c (%) Mortalità tutte le cause Mortalità cardiovascolare
<7 2,36 2,92
7.0-7.8 2,38 3,39
7.9-8.7 3,11 4,44
8.8-9.6 3,65 5,35
>9.6 8,51 10,46

Questo conferma l’importanza di mantenere l’A1C <7.0% per ridurre il rischio di mortalità

3)      L’aspettativa di vita attuale per gli adulti con diabete di tipo 1 non è ancora uguale a quella delle persone senza diabete (Estimated life expectancy in a Scottish cohort with type 1 diabetes, 2008-2010). In questo studio si riporta l’attesa di vita attuale per gli adulti con diabete di tipo 1 in un campione di popolazione utilizzando registri nazionali scozzesi di adulti con e senza diabete. I risultati riportano che all’età di 20 anni, le donne e gli uomini con diabete di tipo 1 possono aspettarsi di vivere 12,9 anni e 11,1 anni, rispettivamente, in meno di adulti di età corrispondente ma senza diabete di tipo 1. Complessivamente, il 41% di queste morti premature erano secondarie a malattie cardiocircolatorie, il 16 % era a causa di cancro, e il 9 % era da complicanze acute e altre cause legate al diabete .

4)      Anche in presenza di valori di emoglobina glicosilata <7 il rischio di mortalità legato al diabete non è azzerato. Come entrambi gli studi citati riportano, la malattia cardiovascolare rimane comune e porta a mortalità prematura, soprattutto in presenza di malattia renale. Però anche in assenza di complicanze renali e con un controllo metabolico adeguato, la mortalità per malattie cardiovascolari rimane significativamente maggiore nelle persone con diabete di tipo 1 rispetto alla popolazione senza diabete.

Questi importanti lavori forniscono una forte evidenza di miglioramento della sopravvivenza del paziente con diabete di tipo 1 nel 21 ° secolo e vi è una certa rassicurazione per il presente che gli sforzi per migliorare il controllo glicemico e le terapie che forniscono protezione renale e riduzione del rischio cardiovascolare possono prevenire o ritardare le complicanze e preservare il futuro delle persone con diabete di tipo 1. Ciò nonostante la terapia non è ancora in grado di sostituire completamente la funzione e molto lavoro deve ancora essere fatto. Questo è oltretutto vero se si considera che meno di un diabetico di tipo 1 ogni 4 è a target per il controllo glicemico. Abbiamo quindi una terapia efficace, ma non ancora sufficiente e accanto all’invito di usarla nel miglior modo possibile dobbiamo mantenere lo sforzo per trovare strade definitive nella cura.