Cellule T e PD-1: 
quando le cellule non sono per niente “stanche”, ma molto “attive”

Vi abbiamo già parlato delle cellule T – cellule del sistema immunitario prodotte dal timo e responsabili della protezione verso le infezioni che attaccano il nostro corpo.

Pur trovandosi ovunque nel nostro organismo, sono in moltissimi a studiare il comportamento di queste cellule solamente nel sangue.
Noi del DRI, invece, abbiamo provato ad osservarle in un sito diverso e studiato da pochissimi: i tessuti.

In particolar modo, lo studio condotto dalla Dr.ssa Alessandra Petrelli in collaborazione con la University Medical Centre of Utrecht ha preso in considerazione le cellule T posizionate nei tessuti target (ovvero i tessuti colpiti dalla patologia) di pazienti con malattie autoimmuni.

Nello specifico, i dati raccolti dallo studio si riferiscono prevalentemente a un particolare tipo di malattia autoimmune – l’artrite idiopatica giovanile – ma sono stati presi campioni anche da pazienti affetti da altri tipi di malattie autoimmuni, tra cui la dermatite atopica e il morbo di Crohn.

Ma partiamo dal principio.

I checkpoint inhibitors (CPI) sono farmaci che agiscono inibendo le molecole “di blocco” della risposta immunitaria: in particolare, essi andrebbero a bloccare il legame tra PD1 e PDL1, una proteina che va sempre a legarsi con il marker PD1, inducendo così l’attivazione cellulare.
Questi farmaci sono sempre più utilizzati nella terapia tumorale, ma purtroppo sono fortemente associati allo sviluppo di malattie autoimmuni, incluso il T1D.

Lo studio condotto dalla Dott.ssa Petrelli chiarisce proprio i meccanismi del legame tra le cellule che esprimono il marker PD1 e l’autoimmunità: l’ipotesi è che le cellule in questione, già pronte all’attacco in pazienti predisposti, possano essere ulteriormente attivate (slatentizzate) dalla terapia con CPI.

Il lavoro si è svolto prelevando dai soggetti selezionati alcuni campioni di liquido (chiamato liquido sinoviale) presente nelle loro articolazioni e che si accumula a causa dello stato infiammatorio.

 

In questi campioni di liquido sinoviale si è notata la presenza di numerose cellule T, cellule che esprimono un marker identificativo chiamato PD-1. Questo “marker” si trova sulla superficie di molte cellule del sistema immunitario e, secondo la letteratura, identifica cellule “esaurite“, ovvero cellule con funzionalità ridotta – fanno parte di quest’ultima categoria, per esempio, le cellule coinvolte in malattie come il cancro.

Al contrario, secondo lo studio condotto dalla Dr.ssa Petrelli, le cellule T che esprimono il PD-1 localizzate nel liquido sinoviale di pazienti affetti da artrite idiopatica giovanile, sono risultate essere senz’altro fortemente “attive” piuttosto che “stanche”.

C’è da chiedersi allora se queste cellule siano quindi un fattore scatenante l’autoimmunità – in questo caso si potrebbe inibirle, bloccando o persino prevenendo lo sviluppo della malattia – oppure se siano una conseguenza dello stato infiammatorio locale – in questo caso l’inibizione della loro funzione potrebbe favorire lo spegnimento dell’infiammazione stessa.

Causa o effetto che sia, è chiaro sicuramente che c’è un forte legame tra cellule T che esprimono PD-1 e autoimmunità, legame che, se indagato, potrebbe portare delle risposte non solo per l’artrite reumatoide giovanile ma anche per altre patologie autoimmuni come il diabete di tipo 1.