Milano 28/09/2024. Negli ultimi giorni è stata riportata, anche da alcune testate giornalistiche non specialistiche, la notizia di uno studio condotto presso il Tianjin First Central Hospital, un ospedale nella città di Tianjin, in Cina, noto per la sua lunga tradizione nei trapianti di fegato. In questo studio, attraverso una terapia basata su cellule staminali, si è riusciti a curare una persona affetta da diabete di tipo 1. Abbiamo rivolto alcune domande ai nostri esperti del Diabetes Research Institute dell’Ospedale San Raffaele (Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute e dell’Unità Operativa Medicina Rigenerativa e dei Trapianti; Valeria Sordi, responsabile dell’unità di differenziazione delle cellule beta; Rossana Caldara, responsabile del programma di Medicina dei Trapianti presso la stessa unità) per comprendere meglio la rilevanza di questa scoperta.
– Cominciando da un punto chiave: quanto è attendibile la notizia della guarigione della paziente?
“Il livello di attendibilità è molto alto. La notizia proviene dalla pubblicazione del caso come singola esperienza su una delle più prestigiose riviste scientifiche nel campo della medicina e biologia, Cell. Lo studio è stato condotto da un team guidato dal Professor Hongkui Deng, docente di biologia cellulare e direttore del Peking University Stem Cell Research Center. Il Professor Deng ha una lunga esperienza nell’ambito delle cellule staminali e nel loro impiego nella medicina rigenerativa, con numerose pubblicazioni precedenti che hanno gettato le basi per questo studio. Inoltre, il caso è tracciabile in quanto parte di uno studio clinico approvato e registrato in archivi pubblici. In un contesto, come quello delle cellule staminali, in cui non è raro imbattersi in notizie su trattamenti miracolosi senza alcun fondamento, questa vicenda ha tutte le caratteristiche di trasparenza e solidità che la rendono credibile”
– Potete spiegarci il caso dal punto di vista clinico?
“Ci troviamo di fronte a una paziente di 25 anni con una storia clinica complessa. Ha sviluppato diabete di tipo 1 all’età di 14 anni, complicato successivamente da una cirrosi epatica criptogenica, che ha richiesto due trapianti di fegato, uno a 16 anni e un secondo a 18, dopo che il primo era stato perso. A causa dell’instabilità glicemica legata al diabete, con episodi di ipoglicemia grave, la paziente ha ricevuto un trapianto di pancreas all’età di 19 anni, rimosso dopo due anni per complicanze trombotiche. In teoria, avrebbe potuto beneficiare di un trapianto di isole pancreatiche, ma la lunga storia di trapianti multipli ha provocato una condizione di allosensibilizzazione, ossia lo sviluppo di anticorpi che rendono difficile il successo di ulteriori trapianti di organi o tessuti da donatori. Per questo motivo, i colleghi cinesi hanno optato per l’utilizzo di un tessuto derivato dalla stessa paziente, evitando così il riconoscimento da parte degli anticorpi preformati.”
– Come è stato possibile ricostruire cellule produttrici di insulina in un paziente con diabete di tipo 1, il cui sistema immunitario ha distrutto le proprie cellule beta?
“Questo è stato reso possibile grazie all’utilizzo di cellule ottenute in laboratorio a partire da cellule staminali pluripotenti. L’idea di generare cellule produttrici di insulina da cellule staminali pluripotenti non è una novità di per sé, ed è un campo di ricerca molto promettente su cui stanno lavorando vari gruppi nel mondo, incluso il nostro al Diabetes Research Institute. Non è nuova nemmeno la prova che queste cellule possano curare il diabete nell’uomo, come dimostra il caso di Brian Shelton, il primo paziente a guarire con questo approccio. La novità di questo studio rispetto alle esperienze precedenti riguarda il tipo di cellule utilizzate. Finora, le cellule staminali pluripotenti erano derivate da linee di cellule staminali embrionali. In questo caso, invece, sono state ottenute riprogrammando cellule dello stesso paziente, prelevate da una frazione del tessuto adiposo (grasso). La possibilità di riprogrammare le cellule del nostro corpo per ottenere cellule staminali pluripotenti è nota dal 2007, grazie al lavoro del professor Yamanaka. Tuttavia, in questo studio è stato adottato un metodo innovativo, più fattibile su larga scala, con costi inferiori e potenzialmente più sicuro, poiché riduce il rischio che queste cellule si trasformino in tumori. Un altro aspetto importante dello studio è la dimostrazione che le cellule possono essere criopreservate prima dell’impianto e successivamente scongelate senza difficoltà, rendendo l’approccio più accessibile e facilmente diffondibile.”
– Come sono state impiantate le cellule e quali risultati clinici hanno ottenuto?
“Il metodo di impianto delle cellule rappresenta un’altra novità dello studio. Le cellule sono state impiantate nella regione addominale, precisamente sotto la guaina del muscolo retto anteriore. Questa procedura può essere eseguita in anestesia locale, sotto guida ecografica, riducendo al minimo i rischi. La quantità di cellule impiantate è circa il doppio rispetto a quella utilizzata in un trapianto di isole pancreatiche. Il risultato clinico è stato significativo: la paziente ha sospeso l’uso dell’insulina 75 giorni dopo l’impianto, mantenendo un perfetto controllo glicemico fino all’ultima osservazione, un anno dopo l’intervento.”
– Se le cellule derivano dal paziente stesso, è possibile che non vengano riconosciute dal sistema immunitario e che possano essere utilizzate senza immunosoppressione?
“Purtroppo, lo studio non fornisce una risposta chiara a questa domanda. La paziente era già in terapia cronica con tre farmaci immunosoppressivi (tacrolimo, micofenolato e steroidi) per prevenire il rigetto del trapianto di fegato. Inoltre, ha ricevuto una terapia di induzione antinfiammatoria per abbassare ulteriormente le difese immunitarie nei giorni attorno all’impianto. Va ricordato che nei pazienti con diabete di tipo 1 esiste una memoria immunologica che può riattivarsi in presenza di nuove cellule produttrici di insulina, distruggendole nuovamente, come osservato nei trapianti di pancreas e isole pancreatiche. Non sappiamo ancora se le cellule derivate da staminali pluripotenti del paziente saranno riconosciute dal sistema immunitario. Ci sono risultati contrastanti nei modelli preclinici, e solo le esperienze sull’uomo potranno dare risposte definitive. Tuttavia, in questo caso specifico, l’immunosoppressione in corso non permette di trarre conclusioni definitive.”
– In conclusione, quali sono i limiti e i progressi di questo nuovo studio?
“Lo studio si inserisce in un promettente filone di ricerca che sta avanzando rapidamente, facendoci sperare che nei prossimi anni si possa arrivare alla cura definitiva del diabete di tipo 1. L’innovazione di questo lavoro risiede nell’utilizzo di cellule derivate dallo stesso paziente, con una tecnologia di riprogrammazione innovativa che stabilisce nuovi criteri di sicurezza e fattibilità. Tuttavia, i limiti includono il fatto che si tratta di un singolo caso (anche se ci sono altri due pazienti trattati di cui non si hanno ancora dati) con un periodo di osservazione di un solo anno e con l’interferenza della terapia immunosoppressiva, che non consente di capire se l’approccio possa avere successo senza questa terapia. In ogni caso, lo studio conferma i progressi della medicina rigenerativa, offrendo sempre più speranza per il futuro.”
Il Diabetes Research Institute dell’Ospedale San Raffaele di Milano coglie l’occasione per ringraziare tutti coloro che danno fiducia alla nostra ricerca sostenendola con iniziative di supporto e donazioni. Se vuoi sostenerci puoi farlo direttamente cliccando qui.