Una terapia già testata nell’uomo per il diabete di tipo 1 all’esordio è un anticorpo in grado di riconoscere una classe di globuli bianchi definiti linfociti (anticorpo anti-CD3). L’anticorpo anti-CD3 si è dimostrato essere un composto promettente per il trattamento del diabete di tipo 1. È stato dimostrato in passato che la sua somministrazione può portare giovamento temporaneo in alcuni dei soggetti trattati, giovamento rappresentato dalla maggior conservazione della secrezione di insulina nei primi anni dopo l’esordio della malattia. Nonostante questo risultato positivo, però, in nessuno di questi soggetti la patologia è stata bloccata definitivamente. In questo studio appena pubblicato dal Diabetes Research Institute sulla rivista internazionale “The Journal of Immunology” (Heterogeneous CD3 Expression Levels in Differing T Cell Subsets Correlate with the In Vivo Anti-CD3–Mediated T Cell Modulation) è stato approfondito il meccanismo d’azione dell’anticorpo anti-CD3, così da avere la possibilità, in futuro, di migliorarne l’efficacia.
La reazione del sistema immunitario alla base del diabete di tipo 1, o diabete autoimmune, è composta prevalentemente da globuli bianchi denominati linfociti. Tra questi possono essere individuate cellule aggressive (quindi deleterie) e cellule protettive (quindi benefiche). Combinando insieme diverse tecniche si è dimostrato che la molecola riconosciuta dall’anticorpo denominata CD3 è espressa a livelli più bassi sulle cellule protettive rispetto alle cellule aggressive. In accordo con questa minore espressione di molecole CD3, le cellule protettive, contrariamente alle cellule aggressive, non vengono bersagliate (e quindi eliminate) in seguito al trattamento con anticorpo anti-CD3. Il risultato finale di questa eliminazione selettiva è quello di arricchire le cellule protettive a discapito delle cellule aggressive permettendo quindi un blocco, seppur temporaneo, della reazione autoimmunitaria.
Questi risultati dimostrano che l’eterogeneità nell’espressione delle molecole CD3 conferisce alle diverse popolazioni linfocitarie una differente suscettibilità all’anticorpo anti-CD3 e identificano un possibile meccanismo d’azione di questo promettente composto, fornendo utili evidenze per migliorarne l’efficacia clinica.