Normalmente le isole pancreatiche vengono trapiantate nella vena porta e arrivano così nel fegato dove favoriscono la costruzione di un organo puzzle, un organo che in natura non esisterebbe ma che viene costruito ad hoc, cioè un fegato che ha anche la funzione del pancreas endocrino. L’infusione nella vena porta come sito di impianto è stato suggerito da un punto di vista sperimentale nel 1973 dal Dr. P. Lacy, utilizzando un modello animale.
La pubblicazione negli anni ’80-’90 dei primi casi di insulino indipendenza utilizzando questo approccio (nei pazienti con autotrapianto di isole dopo asportazione del proprio pancreas e nei pazienti con diabete di tipo 1 dopo allotrapianto di isole pancreatiche) ha consacrato questa modalità come il “gold standard” clinico.
Anche se clinicamente il fegato è un sito a basso rischio (è possibile l’intervento in anestesia locale), da un punto di vista biologico il sito presenta alcuni problemi che riducono l’efficienza del trapianto, in quanto più del 50% delle cellule infuse va incontro a morte nella prima settimana dopo l’impianto. È dunque un comune intento della comunità scientifica quella di trovare siti alternativi per l’infusione e sono attualmente attivi protocolli per valutare la sicurezza e la efficacia del midollo osseo, del muscolo e della mucosa del tratto gastroenterico.
Si è aggiunto a questi un nuovo studio condotto presso il Diabetes Research Institute di Miami (USA) che si prospetta molto promettente. Infatti in data 18 agosto è stato arruolato il primo paziente di sei attesi in uno studio di fase I/II denominato “Allogeneic IsletCells Transplanted Into the Omentum” (NCT02213003). Lo scopo dello studio è quello di studiare la sicurezza dell’approccio del trapianto nell’omento e nello stesso tempo di avere qualche dato sulla funzione.
L’omento è un foglietto sieroso che ricopre gli organi addominali. L’intervento effettuato per via laparoscopica consiste nel posizionare le isole sulla superficie dell’omento e, al fine di mantenerle in sede, di creare una colla biologica utilizzando il plasma (la parte liquida del sangue) del ricevente in associazione con una proteina denominata trombina.
L’obiettivo primario dello studio in termini di efficacia è la proporzione dei pazienti che raggiungono un valore di emoglobina glicosilata inferiore a 6.5% a un anno dal trapianto in assenza di episodi di ipoglicemia severa a partire dal 28° giorno post trapianto. Lo studio prevede comunque una terapia immunosoppressiva standard. Il primo paziente, una donna di 43 anni, ha raggiunto l’insulino indipendenza molto velocemente, come annunciato dal DRI di Miami il 9 settembre.
Seppur troppo presto per esprimere un giudizio definitivo sulla nuova procedura, il risultato fa ben sperare nella possibilità di migliorare l’efficacia del trapianto, anche se è necessario attendere i risultati sul lungo termine e su un numero adeguato di pazienti. Nel frattempo in collaborazione con i colleghi del DRI di Miami, il Diabetes Research Institute di Milano sta valutando la possibilità di replicare la procedura presso l’Istituto Scientifico San Raffaele.
Omento, nuova casa per le isole pancreatiche?