Le cellule producenti insulina derivanti dalla cellule staminali pluripotenti umane hanno il potenziale per trattare il diabete nell’uomo, ma il loro uso clinico è in parte limitato dal loro possibile rigetto o dal loro riconoscimento da parte della autoimmunità a causa dell’espressione di alcune proteine sulla superficie cellulare denominate complesso maggiore di istocompatibilità (HLA). Sono state proposte diverse soluzioni per questo problema come per esempio la costruzione di banche di cellule con diversi HLA da utilizzare di volta in volta a seconda delle caratteristiche del ricevente o la derivazione di staminali pluripotenti indotte da ciascun paziente, ma entrambi questi approcci richiedono che siano derivate più linee cellulari, differenziate in prodotti terapeutici e approvati per la somministrazione nell’uomo. Lo sviluppo di una singola linea di cellule staminali pluripotente che possa evitare il riconoscimento da parte del sistema immunitario ridurrebbe notevolmente il tempo e le spese necessarie per far avanzare le terapie cellulari alla clinica. Su questo presupposto numerosi gruppi, compresi i ricercatori del DRI di Milano, stanno lavorando per manipolare i geni delle cellule in modo tale da cambiare l’espressione del complesso maggiore di istocompatibilità. Una prima conferma della correttezza dell’approccio giunge dall’ University of Washington dove un gruppo di ricercatori guidato da David W Russell ha mostrato che cellule staminali pluripotenti umane di origine embrionale e le cellule da esse derivate non sono riconosciute dal sistema immunitario se si va a distruggere un gene che codifica per una proteina denominata beta due microglobulina (B2M) e contemporaneamente si forza l’espressione di un gene in grado di modulare la risposta immunitaria che codifica per una proteina denominata HLA-E (Nat Biotechnol. 2017 May 15. doi: 10.1038/nbt.3860). Questo risultato costituisce un altro mattone fondamentale nella spaventosa progressione degli ultimi anni verso l’utilizzo nell’uomo di prodotti cellulari darivati da cellule staminali in assenza di immunosoppressione. I risultati supportano l’uso di cellule staminali pluripotenti esprimenti HLA-E come fonte di cellule donatrici universali di prima generazione, almeno in applicazioni in cui il tipo di cellule trapiantato non esprime altre molecole di riconoscimento, come nel caso delle beta cellule per il diabete. Tuttavia l’espressione ridotta dell’ HLA solleva anche preoccupazioni di sicurezza specifiche. L’assenza di HLA di classe I non promuove di per sé l’insorgenza di tumore, ma la presenza di HLA può contribuire all’eliminazione di cellule maligne qualora si formino per altri meccanismi e svolge un ruolo nella eliminazione delle infezioni. La domanda è se dunque le cellule così ottenute possano sfuggire al controllo del sistema una volta impiantate qualora sviluppino trasformazione neoplastica o si infettino. Per questa ragione si sta studiando presso il DRI di Milano una seconda generazione di cellule in cui la sicurezza di questi prodotti cellulari può essere migliorata mediante l’inclusione di geni suicidi che possano essere attivati mediante l’assunzione di alcuni farmaci e portare alla distruzione del tessuto impiantato qualora per qualsiasi motivo se ne perda il controllo.
Staminali invisibili al sistema immunitario