Il trapianto Beta cellulare è ad oggi una delle migliori risposte davanti alla domanda: come possiamo curare il diabete di tipo 1?
Il trapianto consiste nell’impiantare nell’organismo isole di Langerhans, agglomerati di cellule deputati fondamentalmente alla produzione di insulina attraverso le cellule Beta, reintegrando così la mancata secrezione di insulina nel paziente con diabete di tipo 1.
Ad oggi, questa tecnica è stata notevolmente consolidata ed è già una procedura clinica ampiamente riconosciuta in molti paesi, tra cui l’Italia.
I due grandi limiti legati a questa procedura rimangono da un lato la carenza di donatori d’organo e dall’altro la risposta del sistema immunitario del paziente nei confronti del trapianto.
Inoltre, il diabete è una malattia autoimmune, ovvero è una malattia in cui il sistema immunitario nativo finisce per riconoscere come estranei elementi in realtà propri del soggetto: in particolar modo, nel caso del diabete di tipo 1 il sistema immunitario del paziente attacca le cellule Beta all’interno del pancreas, creando così una situazione di totale mancanza di insulina.
Per questo motivo il trapianto beta cellulare di per sé non può bastare: se da una parte la procedura consente al paziente di riacquisire la capacità di produrre insulina in maniera autonoma, dall’altra il paziente trapiantato dovrà assumere farmaci immunosoppressivi a vita al fine di evitare il rigetto.
La ricerca scientifica quindi sta cercando una soluzione alternativa che sia in grado di risolvere entrambi i limiti principali del trapianto di isole, cioè la mancanza di cellule da trapiantare e la necessità di contrastare la risposta del sistema immunitario al trapianto.
Le ultime novità in materia arrivano dall’incontro tra i grandi leaders internazionali in fatto di trapianto Beta cellulare avvenuto il 7-8 maggio presso la Harvard Medical School di Boston, Massachussets.
Il workshop, organizzato dalla International Pancreas and Islet Association (IPITA – https://www.tts.org/ipita/home ), si è diviso in 8 differenti sessioni che hanno dato aggiornamenti partendo dalle nuove scoperte legate allo sviluppo dell’organo pancreatico nel feto, fino ad arrivare alle novità in fatto di trapianti “alternativi” fatti utilizzando isole porcine, soluzione che è ancora in fase di sperimentazione poiché il rischio di rigetto è molto elevato considerando che le cellule sarebbero in questo caso di origine animale.
Durante il workshop, tra le fonti alternative al trapianto di beta cellule, si è ovviamente trattato anche di cellule staminali – sia quelle embrionali (ESC) sia quelle pluripotenti indotte (iPSC)
Tra le novità più importanti a riguardo, sicuramente vanno evidenziate quelle che per ora sembrano essere le due strategie migliori per evitare una risposta immunitaria dell’organismo.
La prima si basa sull’ incapsulamento delle beta cellule all’interno di un device le cui pareti non siano permeabili dai vasi sanguigni, evitando così un contatto diretto tra il sistema immunitario e le cellule impiantate. L’ incapsulamento cellulare presenta però ad oggi ancora grossi limiti, tra cui garantire il giusto apporto di ossigeno e nutrienti alle cellule – problema risolvibile, ad esempio, cercando nuovi materiali biocompatibili o, ancora, infondendo ossigeno dall’esterno – e ridurre la formazione di tessuto fibrotico attorno alle pareti del device, elemento che impedisce la sopravvivenza delle cellule.
La seconda strategia è invece basata sulle tecniche di ingegneria genetica che permettono di modificare i geni coinvolti nel riconoscimento della beta cellula da parte del sistema immunitario.
Attraverso un processo di “taglia e cuci” genetico, le cellule staminali infatti vengono rese invisibili al sistema immunitario, allontanando così il rischio di rigetto del trapianto ed evitando anche al paziente trapiantato l’immunosopressione.