Covid, diabete di tipo 2 nei bambini e chetoacidosi: facciamo il punto

images (1) Milano 05/05/2021. Negli ultimi giorni una serie di testate giornalistiche sia specialistiche che divulgative hanno riportato il risultato di uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista “Diabetes Care” sulla possibilità di una relazione tra covid-19 e la presentazione di una rara complicanza acuta all’esordio del diabete di tipo 2 nei bambini: la cheto acidosi diabetica. Al fine di chiarire meglio il significato dello studio, riportato in modo più o meno corretto dai media, abbiamo posto a Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute, una serie di domande giunte alla nostra attenzione.

Innazitutto, nello studio si parla di chetoacidosi in bambini con diabete di tipo 2, un concetto che sembra strano poiché di solito si parla di chetoacidosi all’esordio del diabete di tipo 1. E’ corretto?

La chetoacidosi è spesso associata al diabete di tipo 1, ma non è un rapporto esclusivo. Da molti anni, questa associazione tradizionale è stata messa in discussione con l’aumento delle segnalazioni di diabetici di tipo 2 che si presentano con una chetoacidosi alla diagnosi, in alcuni dati di registro con una prevalenza intorno al 5%. La chetoacidosi non è determinata di per se dal tipo di diabete, ma si verifica quando vi è una diminuzione relativa (diabete tipo 2) o assoluta (diabete di tipo 1) dei livelli di insulina circolante in relazione a un aumento dei livelli degli ormoni controregolatori. Questo avviene con molta più frequenza nei soggetti con diabete di tipo 1 ma può succedere anche nel diabete di tipo 2. Chi ha esperienza clinica nel contesto degli USA, riporta spesso casi di esordio di diabete 2 negli adolescenti americani in particolare nei soggetti con obesità,  appartenenti alle fasce di popolazione più povere e associati all’abuso di alcol che è uno dei fattori precipitanti la chetoacidosi

Nello studio si mostra un incremento di esordio di diabete di tipo 2 e di questa complicanza acuta nei bambini durante il periodo della pandemia. Perché questo è avvenuto?

Innanzitutto bisogna guardare al contesto e al tipo di studio condotto. Si tratta di uno studio retrospettivo di un singolo centro (il Children’s Hospital di Los Angeles) fatto sulle cartelle mediche dei pazienti pediatrici che si sono presentati al centro in un periodo di 6 mesi (marzo-agosto) di tre anni successivi: 2018, 2019, 2020. Il numero di esordi nel periodo osservato è stato di 44, 66 e 82. Per cui se è vero che nel 2020 ci sono stati più casi che nel 2019 (+16) è altrettanto vero che anche nel 2019 c’erano stati più casi rispetto al 2018 (+22) riflettendo un trend di crescita che sembra indipendente rispetto all’andamento della pandemia. Per cui lo studio di fatto non sostiene un incremento di casi legato specificatamente alla pandemia. E’ però vero che tra i gli esordi la percentuale di quelli che si presentavano con chetoacidosi è salita nel 2020 (20%) rispetto a agli anni precedenti (3% e 9%). Lo studio essendo osservazionale retrospettivo non permette  di trarre conclusioni. Inoltre mancano informazioni importanti come la storia clinica e familiare dei pazienti pediatrici analizzati. Esistono potenzialmente molte possibili spiegazioni: per esempio in corso di pandemia può essere che i casi vengano tutti riferiti ad un centro di riferimento, o che banalmente le persone si rechino in ospedale solo quando questo diventa inevitabile per paura di avere un contagio ritardando la diagnosi e quindi favorendo un esordio più acuto della stessa. Ugualmente la pandemia potrebbe aver acuito il disagio della fascia adolescenziale e per esempio aver favorito l’abuso di alcol con maggior incidenza di chetoacidosi. L’età media dei soggetti con esordio riportati nel lavoro è di 14 anni, con  sovrappeso/obesità e prevalentemente appartenenti alla comunità latinoamericana, caratteristiche compatibili anche con questa ipotesi nel contesto della città di Los Angeles.

Ma potrebbe essere che la chetoacidosi possa essere una conseguenza di una eventuale infezione da Sars-Cov-2 che abbia prodotto direttamente l’esordio del diabete? Si è parlato spesso di questa possibilità negli ultimi mesi…

Come sempre dobbiamo distinguere tra ciò che è possibile, ciò che è probabile e ciò che è reale. Inoltre dobbiamo capire i limiti degli studi che vengono prodotti, prima di estrapolare conclusioni. Nei modelli sperimentali il virus Sars-Cov-2 si è dimostrato in grado di infettare le cellule che producono insulina. Questo significa che è possibile che il virus possa determinare il diabete ma non dice né se la cosa sia probabile né se sia reale. Molti virus, ad esempio quello della influenza, in modelli di laboratorio inducono diabete ma non si è dimostrato che lo facciano veramente nella vita reale nell’uomo. Nello specifico di questo studio, la domanda non può avere una risposta poiché sia il disegno dello studio che i dati disponibili non possono rispondere neanche lontanamente a questa domanda. Per esempio, di tutti i nuovi esordi del 2020 solo in 14 degli 82 si è eseguito un tampone al momento del ricovero (segno di una eventuale infezione in corso) e solo in 6 si è guardata la presenza di anticorpi contro il virus (segno di una eventuale pregressa infezione). E volendo spremere l’interpretazione dei dati i risultati vanno esattamente in direzione opposta, essendo tutti i tamponi risultati negativi e solo due soggetti risultati positivi per gli anticorpi. Solo studi epidemiologici ben più complessi, con disegni e numeri adeguati potranno cercare di rispondere al quesito se la pandemia è di per se associata ad un incremento di esordio di diabete. E anche in quel caso se la associazione sia con l’evento pandemia o con il virus sarà motivo di discussione. Una pandemia è un evento vasto che ha modificato moltissime variabili potenzialmente in grado di modulare l’incidenza di malattie indipendentemente dal virus. Solo per fare un esempio, durante la guerra dei Balcani si è assistito in molte aree coinvolte ad un diminuito rischio di sviluppare diabete di tipo 2 e viceversa ad un incremento del rischio di diabete di tipo 1. Ugualmente lo stress post-traumatico dopo l’evento dell’11 settembre con il crollo delle torri gemelle  è risultato associato ad un incremento del rischio di diabete di tipo 2. Eventi così ampi possono modulare in mille modi lo stato di salute delle persone influenzando elementi ambientali e comportamentali.